Con Muhammad Alì se n’è andato un sognatore e un ribelle
Muhammad Alì se ne è andato, leggero come sempre, a 74 anni, colpito da una malattia respiratoria complicata dal morbo di Parkinson. Ricorderemo tutti la sua grandezza di pugile, che cominciò nel 1960, alle Olimpiadi di Roma, con la medaglia d'oro nei pesi mediomassimi.
A noi piace ancor più ricordare l'uomo che rappresentò: un esempio di coraggio e di lotta.
Non solo una leggenda del pugilato, ma un uomo dotato di grande sensibilità, carismatico, impegnato nella lotta per i diritti civili e nelle battaglie sociali in favore della comunità afroamericana.
Rinunciò al suo nome di nascita Cassius Clay ("Perché è da schiavo"), scelse Muhammad Ali, ovvero “Amato da Dio”, un nome libero. Si convertì all'Islam e pagò con il carcere, all'inizio della sua luminosa gloria, per aver rifiutato, nel 1967, di partire per la "Sporca Guerra" del Vietnam. Fu uno dei paladini del movimento per la liberazione degli afroamericani: non più catene, ma solo diritti. Come i bianchi, come tutti gli altri. Non abbassò mai la testa: sul ring, come nella vita. Anche il morbo di Parkinson non fermò la sua generosità, il suo battersi per gli altri, per gli emarginati, i deboli, gli indifesi. Lo ricordiamo ad Atlanta, quando ultimo tedoforo, diede il via ai Giochi del 1996: il tremore delle mani non tolse nulla alla sua grandezza, alla sua nobiltà. Lui era ancora lì a offrirsi, senza maschere, senza timori, alla gente. Nudo, vero, autentico.
Fu, per tutti coloro, che sognavamo la rivoluzione e un futuro migliore, un esempio da seguire. Un mito, come Ernesto Che Guevara e i martiri della Resistenza. L'America di Obama deve molto a questo atleta, che danzava sul quadrato e sui sogni di libertà di milioni e milioni di persone.
Cambiò il pugilato, con quel suo stile che rifiutava la violenza per la violenza, ballava, parlava, rideva. Era la meraviglia e l'arte. Era il campione delle sfide impossibili. Davvero "una farfalla". Lo raccontò alla perfezione David Remnick, direttore del settimanale "New Yorker", definendolo "Il re del mondo". Grazie campione, grazie per non aver mai accettato la convenienza, le regole comuni, un facile tornaconto personale.
Ti ricorderemo, splendido e orgoglioso, su quell'immenso ring che si chiama giustizia, tolleranza e verità.