Covid: ecco perché in Giappone, Corea e Australia ci sono pochi contagi

28 October 2020 IN Attualità
Covid: ecco perché in Giappone, Corea e Australia ci sono pochi contagi

In molti stati asiatici si registrano pochi contagi da Covid-19. Meno di 700 in Giappone, 61 in Corea del Sud e 5 in Australia. La chiave? Mascherine e uso dei big data.

 

Pochi contagi da Covid in alcuni Paesi asiatici
Mentre l’Italia e l’intero Occidente fanno i conti con la seconda ondata della pandemia e stentano ad contenerne i numeri, c’è una parte del pianeta dove il virus sta registrando numeri bassi, Paesi in cui le statistiche avanzano al ritmo di poche centinaia o qualche decina di casi giornalieri . È l’Estremo Oriente che, dopo aver adottato severe misure la primavera scorsa oggi sta vivendo al riparo da nuove emergenze. Giappone, Corea del Sud, Taiwan, Thailandia ma anche Australia e Nuova Zelanda sono alcuni di questi territori risparmiati per ora dal coronavirus. La Corea del Sud conta 61 casi e zero vittime. Solamente 5 i malati in Thailandia e Australia. Uno solo in Nuova Zelanda. Ma in tanti Paesi dell’Asia il virus spaventa, come in India, Malesia e Bangladesh che registrano numeri alti. Ma perché nei Paesi citati in precedenza i contagi sono così bassi?

 

I dati dell’Oms e della Ue
A lungo hanno fatto discutere i dati relativi alla Cina: due giorni fa le autorità di Pechino (secondo quanto riporta il sito dell’Oms) avevano comunicato una crescita di appena 22 casi in un giorno in tutto l’immenso Paese e un totale, da inizio pandemia, di 4.700 morti. Trasparenza, privacy, controllo sociale in Cina non sono intesi allo stesso modo che in Europa e di tanto in tanto vengono avanzati dubbi sui dati che arrivano da quell’area. Ma altri Stati, con modelli giuridici e sociali più simili ai nostri registrano comunque numeri opposti a quelli con cui facciamo quotidianamente i conti da questa parte del mondo. Il Giappone ad esempio (la fonte è sempre l’Oms) aveva ieri 699 casi, in costante discesa dopo un picco di 2.000 ai primi di agosto, e 5 morti. La Corea del Sud fa ancora meglio: 61 nuovi contagi e nessuna vittima. Appena 5 sono invece i nuovi malati in Thailandia, dove il virus secondo le statistiche ufficiali non circola più ormai da aprile. Identico indice fa registrare l’Australia , uno solo malato la Nuova Zelanda. Eppure in Asia il virus circola eccome: India, Malesia, Bangladesh, Indonesia sono alle prese con una situazione più vicina a quella europea che a quella giapponese stando ai dati «fotografati» stavolta dell’European Centre for Disease Prevention and Control (Ecdc).

 

Giappone: la mascherina come abitudine
Ma quali possono essere le chiavi che hanno garantito un «cordone sanitario» a questi Paesi? Prendiamo il caso del Giappone. Qui il successo nella lotta al coronavirus è attribuito innanzitutto all’uso diffusissimo tra la popolazione della mascherina anche prima della pandemia, anche solo per proteggere se stessi e gli altri da raffreddori e allergie. Ma una nota disponibile sul sito dell’ambasciata di Tokyo in Italia spiega anche di più. «L’intuizione fondamentale che ci ha aiutati nella lotta contro il Covid è la nozione di cluster di trasmissione», scrive Yosutoshi Nishimura, ministro incaricato della lotta al Covid. Cioè: pochi gruppi determinano una altissima contagiosità e dunque è necessario intervenire su quelli in maniera «chirurgica», isolandoli. Un criterio di mappatura e di incrocio dei dati che ha comportato un ampio impiego di nuove tecnologie di fronte al quale il Giappone non è stato colto impreparato. «Gli esperti della sanità giapponese», prosegue il documento, «hanno utilizzato la tecnica del “tracciamento retrospettivo”», ricostruendo i movimenti del paziente molto precedenti il contagio. In secondo luogo si è cercato di prevenire le situazioni considerate a più alto rischio: spazi chiusi, spazi affollati, contatti ravvicinati. Il tutto facendo ampio ricorso a tecnologie informatiche ed intelligenza artificiale. «Il nostro “new deal digitale” - scrive ancora il ministro Nishimura - ha reso il lavoro da casa più facile promuovendo aggressivamente la tecnologia del telelavoro, liberando le persone dalla necessità di utilizzare i treni di Tokyo affollati di pendolari». La tecnologia si è rivelata infine un supporto indispensabile per la pratica dei test rapidi salivari e per gli anticorpi.

 

Corea: tracciamento e big data
Digitalizzazione e uso dei big data sono considerati la chiave del successo nella lotta al coronavirus anche in Corea del Sud. Qui all’inizio la situazione pareva sfuggire di mano: la curva epidemiologia era stata vertiginosa anche se i casi si concentravano principalmente nelle grandi aree urbane di Seul e Daegu. Poi si sono adottate politiche di tracciamento massicce della popolazione attraverso app per smartphone ma anche facendo ricorso a raccolte di dati «a strascico» attraverso «tracce» lasciate da carte di credito o immagini di videocamere in luoghi pubblici. Una politica che ha suscitato perplessità dal punto di vista giuridico, a cui ha aperto la strada una riforma adottata dal governo coreano nel 2015 proprio per fronteggiare l’epidemia di Mers, scoppiata nel Paese in quel periodo.

 

Australia: Melbourne 112 giorni isolata
Altro esempio virtuoso è l’Australia anche se i Paese ha attraversato momenti difficili. I casi e le morti quasi azzerate di questi giorni fanno seguito a una stagione in cui l’epidemia ha colpito «a macchia di leopardo». La situazione più problematica si è verificata a partire da luglio nella regione di Melbourne, dove si è contato il 90% dei 905 morti per coronavirus dell’intera nazione. E proprio in questi giorni le autorità locali hanno dichiarato la fine del lockdown dopo ben 112 giorni. Nessuno era inoltre autorizzato a entrare o uscire dalla regione se non per motivi di stretta necessità. Un intervento molto drastico ma che ha subito circoscritto il diffondersi della malattia . Il Paese ha inoltre attuato una rigorosa quarantene verso chiunque provenisse dall’estero.

 

La situazione in Italia
Il tracciamento dei contatti, quindi, è una delle azioni di sanità pubblica più utilizzate in tutto il mondo per la prevenzione e il contenimento della diffusione di molte malattie infettive e rappresenta uno strumento importante all’interno di una strategia sostenibile post-emergenza e di ritorno alla normalità.
Ma se nei Paesi citati in precedenza il tracciamento tramite app e big data è la prassi, l’Italia è ancora indietro. 
Secondo alcuni sondaggi, infatti, alla fine di agosto, a tre mesi dal lancio dell’app Immuni, i download sono stati circa 5 milioni e dunque gli italiani che l'hanno scaricata sul loro smartphone sono solo il 13% della popolazione; poca cosa se confrontato all'obiettivo del 60% perché il sistema sia davvero efficace nel contenimento della pandemia. I dati aggiornati al 14 ottobre e comunicati dal Ministero della Salute vedono 8.762.078 download, pari al 22%degli smartphone italiani.
I sondaggi dicono anche che oltre il 75% degli utenti di smartphone in Italia sarebbe disposto a installare l'app di tracciamento dei contatti, ma quanti di loro concretizzano l’intenzione? Quali sono le paure degli utenti? Sicuramente molti temono che possa essere minata la loro privacy e, dunque, si sentono in qualche modo spiati, ragion per cui decidono di non scaricare l’app e di non utilizzarla. 
È prioritario ed indispensabile, quindi, realizzare un sistema di tracciamento dei contatti efficace che da una parte tuteli la privacy degli utenti e dall’altra fornisca un aiuto concreto ai Governi e agli Enti Locali preposti al contenimento della pandemia.

 

Fonte: Il Corriere della Sera/BD Business Defence

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