Dire sempre sì a un cliente è facile. Ma quando dobbiamo dirgli no?
Nella comunicazione il “no” incarna un ostacolo serio. Viene considerato una porta che si chiude e che nega le alternative. In ambito commerciale, il no di un cliente è come un interruttore che fa cambiare di stato la negoziazione. Insieme a «sì, ma...» secondo alcune scuole apre una fase della vendita, quella delle obiezioni e della relativa gestione. C’è chi si spinge oltre e sostiene che la vendita comincia solo quando il cliente dice no (prima è solo distribuzione). Dal punto di vista del fornitore, l’antidoto al potere distruttivo del no è non dirne mai e puntare l'attenzione su quello che si può fare. Tralasciando i no che alcune scuole di pensiero suggeriscono di dire tatticamente a sostegno dell’assertività, restano – per quanto abilmente attenuati da tecniche lessicali – quelli necessari a fronte di richieste immotivate, sbagliate o ingiuste, sebbene in buona fede. Come rendere più accettabili questi no? Un primo livello sa di consiglio della nonna: usa le buone maniere. In maniera più tecnica, questa espressione si traduce nella cura del come li dico (canali paraverbale e non verbale). Su questo ci sono più credenti che praticanti, a giudicare dal fatto che il disallineamento tra cosa diciamo e come lo diciamo rimane una delle maggiori ragioni di attriti nelle gestioni professionali dei clienti. Perché, oltre all’imperizia, c’è il rischio che a dire molti no (pensiamo ai Servizi Clienti) subentri prima il distacco dell’abitudine e poi il fastidio: quando va bene, il cliente è un numero, quando va male è un sabotatore che vuole solo rovinarci la vita. E così, mentre le parole che giustificano il no sono ineccepibili, il disinteresse o l’ostilità emergono nel malo modo e una possibile soluzione diventa un sicuro problema. Per altri spunti su come difendere la soddisfazione di un cliente a fronte dei nostri no, possiamo contare su Noriaki Kano. Professore di management a Tokio, negli anni ‘80 mise in relazione la qualità dei prodotti e servizi che fruiamo, mediandoli con le nostre aspettative: la qualità che esprime un fornitore mi soddisfa solo se è maggiore di quella che mi aspetto. Se quanto ottengo è pari a quanto mi aspetto sono neutro, mentre se è meno di quanto mi aspetto sono insoddisfatto. Il modello di Kano postula quindi che esistono qualità implicita, esplicita e latente, legate ai corrispondenti bisogni. Un bisogno che so di avere e che mi aspetto (do per scontato, a torto o a ragione) che venga risolto in un determinato modo, è un bisogno implicito: se vuole arrivare alla mera sufficienza, il mio fornitore può solo risolverlo al meglio. Un bisogno che so di avere, ma di cui non ritengo scontata la risoluzione (tipicamente una richiesta di variazione rispetto a uno standard) è un bisogno esplicito: sarò più soddisfatto da un sì che da un no (o meno insoddisfatto, se per me la richiesta è basica). Per quanto riguarda i bisogni latenti, non so nemmeno di averli: non mi aspetto nessuna qualità e qualunque livello arrivi mi procura una soddisfazione infinita (in termini matematici). Come puoi usare il modello per mitigare l’impatto rovinoso di un doveroso no ad una richiesta esplicita di un cliente? Prima presidia i bisogni impliciti universali (quelli relazionali: cortesia, sorriso, disponibilità, ecc.). Li diamo per scontati e quando non arrivano aggiungiamo insoddisfazione. Poi compensa con la cura di qualche bisogno latente. Non sai quali sono? Alla peggio, appellati ai tre universali: chiamiamoli “calorie”, “futuro” e “centro dell'universo”. Quando ci vengono risparmiate fatica e complicazioni, la soddisfazione è sempre grande. L’animale in me non sa quando mangerà la prossima volta, quindi è fondamentalmente pigro: mi soddisfa tutto quello che mi aiuta nel risparmiare “calorie” (pensate al successo di soluzioni che nascono tra i sospetti di perfetta inutilità, salvo rivelarsi poi irrinunciabili: alzacristalli, telecomandi, libri ordinati dal letto tramite smartphone, ecc.). Un altro nostro bisogno latente è legato alla condizione umana di incertezza sul futuro: se proprio devi dirmi un no, dammi in cambio almeno un “futuro” certo su cosa mi succederà (dopo il tuo no). Infine, l’animale in me sa benissimo chi è il centro dell’universo: me stesso. Allora se devi dirmi no, fammi capire la tua desolazione nel non aver saputo soddisfare la richiesta della persona più importante del mondo, cioè me (o miei cari ecc.) E fammi sentire che se ci fosse stato anche un solo modo per soddisfarmi, sapendo che sono il centro dell’universo, l’avresti fatto. E credici veramente, perché implicitamente mi aspetto che sia vero, e se fai finta me ne accorgo. Pensate che nemmeno questi siano sia sufficienti a compensare una richiesta inevasa? Può darsi, ma tra la certezza di non riuscire e una possibilità di farcela, cosa scegliete? Fonte: Ilsole24ore.com