Il diritto alla reputazione è tutelato dall’art. 595 del Codice Penale

16 May 2022 IN Attualità
Il diritto alla reputazione è tutelato dall’art. 595 del Codice Penale

L’onore, il decoro e la reputazione quali beni giuridici tutelati dall’ordinamento

Esiste un vero e proprio diritto soggettivo perfetto alla reputazione personale anche al di fuori delle ipotesi espressamente previste dalla legge ordinaria, che va inquadrato nel sistema di tutela costituzionale della persona umana. Il suo fondamento normativo è da rinvenirsi negli artt. 2 e 3 della Costituzione (Corte cost. n. 184 del 1986, n. 479 del 1987).

Ed infatti, l’art. 2 Cost., nell’affermare la rilevanza costituzionale della persona umana in tutti i suoi aspetti, comporta che l’interprete, nella ricerca degli spazi di tutela della persona, è legittimato a costruire tutte le posizioni soggettive idonee a dare garanzia, sul terreno dell’ordinamento positivo, ad ogni proiezione della persona nella realtà sociale, entro i limiti in cui si ponga come conseguenza della tutela dei diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali nelle quali si esplica la sua personalità.

L’espresso riferimento alla persona come singolo rappresenta certamente valido fondamento normativo per dare consistenza di diritto alla reputazione del soggetto, in correlazione anche all’obiettivo primario di tutela “del pieno sviluppo della persona umana”, di cui al successivo art. 3 cpv. Cost. (Corte cost. 3 febbraio 1994 n. 13).

Nell’ambito dei diritti della personalità umana, il diritto all’immagine, al nome, all’onore, alla reputazione, alla riservatezza non sono che singoli aspetti della rilevanza costituzionale che la persona, nella sua unitarietà, ha acquistato nel sistema della Costituzione. Trattasi quindi di diritti omogenei, essendo unico il bene protetto (Cassazione Civile, sez. III, 10 maggio 2001, n. 6507)

Il concetto di reputazione ricomprende, dunque, sia l’onore in senso oggettivo, inteso come la stima della quale l’individuo gode nella comunità in cui vive e opera, sia l’onore in senso soggettivo, inteso come il sentimento di ciascuno della propria dignità morale e della somma di qualità che ciascuno attribuisce a se stesso; tra gli elementi strutturali del concetto di reputazione assume un ruolo di rilievo il decoro professionale, da intendersi come l’immagine che un soggetto ha costruito di sé nel proprio ambiente lavorativo (Tribunale di Monza, 3 settembre 2007).


Presupposti per il legittimo esercizio del diritto di critica e di cronaca

I presupposti per il legittimo esercizio del diritto di critica e di cronaca sono i seguenti:

  • l’interesse pubblico alla conoscenza del fatto (c.d. “pertinenza”), ravvisabile anche quando non si tratti di interesse della generalità dei cittadini, ma di quello generale della categoria di soggetti ai quali si indirizza la pubblicazione di stampa (cfr. Cassazione Civile, n. 16917/2010);
  • la correttezza formale e sostanziale dell’esposizione dei fatti (i.e. la continenza), nel senso che l’informazione non deve assumere contenuto lesivo dell’immagine e del decoro e dunque non deve eccedere rispetto allo scopo informativo da conseguire (cfr. Cassazione Civile, sez. I, n. 5259/1984);
  • la corrispondenza tra la narrazione ed i fatti realmente accaduti, nel senso che deve essere assicurata l’oggettiva verità del racconto, la quale tollera solo inesattezze irrilevanti, riferite a particolari di scarso rilievo e privi di valore informativo (cfr. Cassazione Civile, III, 18.10.2005, n. 20140). 

Il giornalista ha, dunque, l’onere di verificare la veridicità della notizia riportata, atteso che in caso di pubblicazione di un articolo a contenuto diffamatorio su una testata giornalistica ad ampia diffusione, la mancata verifica della corrispondenza fra quanto narrato e quanto realmente accaduto determina l’impossibilità, per l’autore dell’articolo, di avvalersi dell’esimente del diritto di cronaca, anche sotto il profilo meramente putativo. Al giornalista è richiesto, pertanto, di controllare la fonte da cui riceve una notizia attraverso un’indagine profonda ed accurata che permetta di affermare, con assoluta certezza, la corrispondenza al vero di quanto riferito, venendo in rilievo la necessità di contemperare interessi diversi, ma tutti garantiti a livello costituzionale, quali il diritto ad informare e la reputazione altrui (Tribunale di Napoli, sez. I, 30/04/2007, n. 3749).

Difatti, chi esercita il diritto di cronaca ha l’obbligo di controllare e verificare il contenuto della notizia con ogni possibile diligenza, dovendo l’informazione riferita al pubblico risultare “frutto di scrupoloso lavoro di ricerca” (Tribunale di Roma, sez. I civile, 1 agosto 2016, n. 15524).

È sufficiente che anche uno di questi requisiti manchi, perché la causa di giustificazione dell’esercizio del diritto di cronaca – spesso invocata dai giornalisti – non operi (cfr. Tribunale di Firenze, sez. II, 12/10/2018, n. 3103).

La giurisprudenza di legittimità è costante nel ritenere che l’esimente di cui all’art. 51 c.p. è riconoscibile purché sia indiscussa la verità dei fatti oggetto di cronaca.

La diffamazione con il mezzo televisivo

La giurisprudenza guarda con maggiore i rigori i casi di diffamazione con il mezzo televisivo, atteso che il mezzo televisivo “per la sua forza di suggestione, per il maggior impatto col pubblico, per la impossibilità di una riflessione immediata e di critica è sicuramente più incisivo, efficace e dannoso del mezzo della carta stampata” (Cassazione Civile, sez. III, 11/06/1992, n. 7154).

Pertanto, tale mezzo richiede al giornalista un maggior grado di prudenza nell’accertare la verità dei fatti che possono incidere negativamente sui diritti personali e patrimoniali dei soggetti, attraverso controlli, cautele, riscontri ed accertamenti e soprattutto verifica dei risultati, precisando al pubblico l’esatta portata ed i limiti della notizia (Tribunale di Milano, n. 4672/2019).

Il mezzo televisivo si caratterizza, quindi, nella maggiore capacità di persuasione che esercita sul pubblico, grazie alla sua capacità di penetrazione nella sfera privata domestica dei telespettatori con un’immediatezza ed una forza di suggestione non paragonabile a quella degli altri mezzi di comunicazione.

In caso di diffusione di una notizia diffamatoria con il mezzo televisivo, il potere-dovere di raccontare e diffondere notizie, quale essenziale corollario del diritto di libertà di informazione e pensiero, viene ad essere snaturato nel suo contenuto essenziale, disattendendo il giornalista il compito di informare in maniera oggettiva, corretta ed imparziale la collettività (cfr. Tribunale di Roma, n. 15524/2016).

La rettifica

La rettifica non elimina le conseguenze dannose, soprattutto nel caso di diffusione delle notizie diffamatorie con il mezzo televisivo.

Secondo costante giurisprudenza, tenuto conto che la trasmissione delle immagini sono in grado di “catturare immediatamente l’attenzione del pubblico televisivo” (Tribunale di Palermo, sez. I, 07/05/2019, n. 2259) ed alla luce della forza di suggestione del mezzo televisivo e della rilevante capacità di persuasione dello stesso, la rettifica non risulta idonea ad elidere del tutto le conseguenze dannose prodotte dalla diffusione di notizie false e diffamatorie, che per effetto della stessa risultano non totalmente eliminate.

Il superamento dei limiti del diritto di cronaca nonché l’inidoneità della successiva rettifica ad eliminare tutte le conseguenze dannose prodotte dalla divulgazione di una notizia falsa e gravemente lesiva della reputazione rendono la condotta posta in essere dal giornalista illegittimamente lesiva del diritto alla reputazione in capo al diffamato, con il conseguente diritto al risarcimento del danno (Tribunale di Palermo, sez. I, 07/05/2019, n. 2259).

L’onere della prova

Quanto all’onere probatorio, secondo costante giurisprudenza, a fronte dell’allegazione di uno scritto o, comunque, di affermazioni che risultino astrattamente diffamatorie, compete al convenuto invocare l’esimente del diritto di cronaca o critica e provare, tra l’altro, la veridicità del fatto narrato (cfr. Tribunale di Firenze, n. 3103/2018).

Per il giornalista, convenuto nel giudizio di risarcimento del danno da diffamazione, per andare esente da responsabilità, è sufficiente dimostrare non la verità storica dei fatti narrati, ma anche soltanto la loro verosimiglianza. Una volta assolto tale onere probatorio, è onere di chi afferma di essere stato diffamato dimostrare che la fonte da cui il giornalista ha tratto la notizia, al momento in cui questa venne diffusa, non poteva ritenersi attendibile (Cassazione Civile, III sezione, 18.4.2013, n. 9458).

Sull’attore incombe, dunque, la prova di dimostrare l’effettivo danno patito, anche con ricorso al notorio e tramite presunzioni, assumendo, come idonei parametri di riferimento, la diffusione dello scritto, la rilevanza dell’offesa e la posizione sociale della vittima, tenuto conto del suo inserimento in un determinato contesto sociale e professionale (Corte d’Appello di L’Aquila, 27/01/2020, n. 132).

Anche la Suprema Corte ha statuito sul punto che “nella diffamazione a mezzo stampa, il danno alla reputazione, di cui si invoca il risarcimento, non é “in re ipsa”, ma richiede che ne sia data prova, anche a mezzo di presunzioni semplici” (Cassazione Civile, sezione III, n. 24474/2014).

Il risarcimento del danno

Accertata la natura diffamatoria delle notizie, al diffamato deve essere riconosciuto il risarcimento dei danni non patrimoniali nella “forma della sofferenza soggettiva causata dall’ingiusta lesione del diritto inviolabile inerente alla dignità, immagine e reputazione della persona ex artt. 2 e 3 Cost.” (Sezioni Unite, 11 novembre 2008, nn. 26972, 26973, 27974 e 26975).

La pronuncia della Suprema Corte n. 18174/2014 ha precisato come il danno arrecato alla reputazione debba essere inteso in senso unitario senza distinguere tra “reputazione personale” e “reputazione professionale”, trovando la tutela di tale diritto il fondamento nell’art. 2 Cost. ed in particolare nel rilievo che esso attribuisce alla dignità della persona in quanto tale.

Il danno è pertanto ravvisabile – e come tale deve essere risarcito – nella diminuzione della considerazione della persona da parte dei consociati in genere o di settori o categorie di essi con le quali quella stessa persona abbia ad interagire (cfr. Cassazione Civile, 27 aprile 2016, n. 8397).

Ai fini della liquidazione del risarcimento del danno, occorre valutare, sulla base dei principi ormai consolidati in materia (si veda Cass. S.U. n. 26972/2008) ed in applicazione di un legittimo procedimento presuntivo, la portata dell’obiettivo pregiudizio alla reputazione, personale e professionale, tenendo conto anche dell’autorevolezza, notorietà e diffusione dell’organo di informazione sui è apparsa la falsa notizia.

Rilevati, dunque, i profili di responsabilità della resistente, occorre individuare il danno che si ricollega a tale fattispecie di responsabilità.

Il risarcimento del danno può, dunque, assumere le forme:

  • della liquidazione di un importo determinato equitativamente dal Giudice;
  • della pubblicazione della sentenza o comunque di un articolo di smentita su quanto diffuso ai danni del diffamato di dimensione e rilievo pari a quello in precedenza pubblicato ovvero della rimozione dei servizi diffamatori online.

Ai fini della liquidazione, il danno, non potendo essere provato, e, comunque, quantificato nel suo preciso ammontare deve essere determinato in via equitativa dal Giudice.

La determinazione del risarcimento delle conseguenze dannose deve avvenire, dunque, con criteri equitativi, assumendo come parametri di riferimento la rilevanza dell’offesa, la posizione sociale della persona colpita, tenuto conto del suo inserimento in un determinato contesto professionale e sociale, sicché la ragione del ricorso a tali criteri è insita nella stessa natura del pregiudizio da ristorare (Tribunale di Roma, n. 15524/2016; Cassazione Civile, sez. III, 5 dicembre 2014, n. 25739; Cassazione Civile n. 13153/2017; Tribunale di Milano, n. 8706/2015).

La giurisprudenza ha riconosciuto la possibilità di fare ricorso alla prova presuntiva, “che può costituire l’unica forma per la formazione del convincimento del Giudice, non trattandosi di mezzo di prova di rango inferiore agli altri” (cfr. Cassazione Civile, n. 24474/2014).

L’Osservatorio sulla Giustizia Civile di Milano ha analizzato i parametri, utilizzati dalla giurisprudenza, di liquidazione del danno da diffamazione a mezzo stampa e con altri mezzi di comunicazione di massa e ha approvato criteri orientativi per la quantificazione equitativa di tale danno, basati su un livello crescente di intensità della lesione arrecata.

In applicazione di detti criteri orientativi, il danno è pertanto collegato:

  • all’oggettiva portata offensiva della notizia che è stata diffusa;
  • alle ricadute negative sulla reputazione nell’ambito privato, professionale e sociale nonché al grado di disagio e sofferenza che inevitabilmente ne è conseguito per la carica ricoperta all’interno della società;
  • al ruolo ed alla funzione ricoperta dal diffamato;
  • alla risonanza mediatica suscitata dalle notizie diffamatorie;
  • alla diffusione della notizia sul territorio nazionale;
  • al mezzo con il quale è stata diffusa la notizia;
  • alla verifica se ci sono state condotte reiterate.


Sulla scorta di tali parametri l’Osservatorio milanese ha individuato cinque categorie di diffamazione, che consentono di indicare criteri orientativi per la liquidazione del danno:

  • diffamazione di tenue gravità: danno liquidabile nell’importo da Euro 1.000,00 ad Euro 10.000,00;
  • diffamazione di modesta gravità: danno liquidabile nell’importo da Euro 11.000,00 ad Euro 20.000,00;
  • diffamazione di media gravità: danno liquidabile nell’importo da Euro 21.000,00 ad Euro 30.000,00;
  • diffamazione di elevata gravità: danno liquidabile nell’importo da Euro 31.000,00 ad Euro 50.000,00;
  • diffamazione di eccezionale gravità: danno liquidabile nell’importo superiore ad Euro 50.000,00.


La pubblicazione della sentenza

Per quanto concerne la pubblicazione della sentenza, occorre richiamare l’art. 120 c.p.c. che prevede che, nei casi in cui la pubblicità della decisione di merito possa contribuire a riparare il danno, il giudice, su istanza di parte, può ordinarla a cura e spese del soccombente, mediante inserzione per estratto in uno o più giornali da lui designati.

Il presupposto contemplato dalla citata norma risiede nella potenzialità riparatrice della pubblicazione.

La giurisprudenza sul punto afferma quanto segue: “I fatti non sono assai risalenti nel tempo e, comunque, l’oblio collettivo non è scontato in relazione ad un caso quale quello in esame, per tutte le specificità sopra evidenziate e tenuto conto delle implicazioni politiche ed istituzionali. Peraltro, ponendo mente alla regula iuris chiovendiana, per cui i tempi della giustizia non possono ritorcersi in danno della parte che ha ragione, deve convenirsi – anche alla luce della peculiare natura dei diritti violati (reputazione, credibilità) – che la pubblicazione possa riparare il danno in qualunque momento intervenga” (Tribunale di Firenze, sez. II, 12/10/2018, n. 3103).

Al giornalista è richiesto di controllare la fonte da cui riceve una notizia attraverso un’indagine profonda ed accurata che permetta di verificare, con assoluta certezza, la corrispondenza al vero di quanto riferito, in quanto necessita ottemperare a interessi diversi, ma tutti garantiti a livello costituzionale: da un lato il diritto ad informare dall’altro la reputazione altrui. 


Fonte: Altalex

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