Il ribaltamento della Sentenza Roe v. Wade: come spazzare via 50 anni di progresso
Lo scorso venerdì 24 giugno la Corte Suprema degli Stati Uniti ha ribaltato la storica sentenza Roe v. Wade, che stabiliva il diritto costituzionale all’aborto negli Stati Uniti dal 1973, riportando il paese indietro di oltre 50 anni.
Tutti i 6 giudici nominati dai Repubblicani, sui 9 giudici totali, hanno votato per l’abolizione del diritto federale, mentre i 3 giudici Democratici hanno votato contro.
Con l’annullamento della sentenza, ritenuta da tempo una sorta di pietra miliare dei diritti individuali, ora i singoli Stati americani hanno la facoltà di stabilire leggi proprie riguardo il diritto, o meno, di una donna a ricorrere all’interruzione di gravidanza, che la sentenza Roe v. Wade consentiva entro la ventiquattresima settimana.
Come è stata stabilita la Sentenza Roe v. Wade?
Era il 1969 quando una ragazza di nome Norma Leah McCorvey, ventunenne texana con un passato difficile e tormentato alle spalle, rimase incinta per la terza volta. I suoi primi due figli erano già stati dati in adozione. Lei era dipendente da alcool e droghe, non aveva un lavoro stabile e il marito era un uomo violento. Per tutti questi motivi decise di voler interrompere la terza gravidanza.
Lo stato in cui viveva, il Texas, non prevedeva l’aborto, se non in caso di stupro o incesto. Allora ella tentò di denunciare il marito per stupro, ma non potendo dimostrare la violenza la sua denuncia venne respinta.
Nel 1970 Norma venne contattata da due avvocatesse texane Linda Coffee e Sarah Weddington che fecero causa alla Corte Distrettuale del Nord Texas a nome di Jane Roe (utilizzando quindi uno pseudonimo della McCorvey per proteggere la sua privacy). L’avvocato che difese la Corte texana fu il procuratore distrettuale Henry Wade da cui il nome della causa, Roe v. Wade.
Così inizia la storica causa “Roe v. Wade” una lunga battaglia legale portata avanti con il principale intento di legalizzare il diritto all'aborto.
Il processo nello stato del Texas ebbe inizio nel 1970 e due anni dopo la causa approdò alla Corte Suprema degli Stati Uniti che emise un verdetto favorevole alla McCorvey, basandosi su una interpretazione del IX emendamento della Costituzione in materia di diritto alla privacy inteso come diritto alla libera scelta per quanto riguarda le questioni legate alla sfera intima della persona, e pertanto anche a una interruzione di gravidanza. Quindi la Costituzione federale riconosceva diritto all'aborto anche in assenza di problemi di salute della donna, del feto e di ogni altra circostanza che non fosse la libera scelta.
Wade, già famoso in America per essere stato protagonista del processo contro Lee Harvey Oswald, l'assassino del Presidente Kennedy, affrontò il processo con grande tenacia e preparazione, diventando però uno degli uomini più odiati da tutte le donne pro-choice. Nel frattempo, Jane Roe era divenuta, al contrario, il simbolo di tutte le donne che sostenevano la libertà di scelta su un tema personale e delicato come quello dell'aborto. Gli Stati Uniti in quei due anni si mobilitarono, spaccandosi tra movimenti antiabortisti e pro-life e tra coloro che lottavano per il diritto all'interruzione di gravidanza.
Conseguenze del ribaltamento della sentenza
Di fatto, ad oggi negli Stati Uniti non esiste più un diritto costituzionale all’aborto. I singoli Stati sono quindi liberi di applicare le loro leggi in materia: dalla Louisiana al South Dakota, dal Kentucky al Texas, l'aborto è oggi vietato e perseguibile penalmente. Diversa la posizione di Stati come California, Oregon, Stato di New York e Stato di Washington, che si impegnano invece ad assicurare assistenza alle donne che vogliano interrompere la gravidanza, mettendo in evidenza sempre più il divario socio-economico tra chi potrà permettersi un viaggio in un altro Stato per abortire e chi invece sarà costretta ad affrontare una gravidanza non attesa. Ma non solo, ci si aspetta anche un possibile proliferare di aborti illegali, che metterebbero in serio pericolo la vita delle donne, soprattutto quelle più povere e vulnerabili.
Inoltre, gli effetti legali della nuova sentenza – che sarà nota come “Dobbs” – potrebbero estendersi anche al di là dell’aborto. Infatti, nel firmare l’opinione della maggioranza, Samuel Alito (giudice associato della Corte suprema degli Stati Uniti) ha sostenuto che la decisone si applica solo all’interruzione di gravidanza. Ma molto esperti si chiedono se il suo ragionamento possa essere esteso ad altre decisioni della Corte Suprema, rimettendole in questione. Ad esempio, il diritto all'acquisto e all'uso di qualsiasi tipo di contraccettivo è protetto negli Usa solo da una sentenza della Corte del 1965. Anch'esso non è un diritto esplicito nel testo della Costituzione o storicamente tutelato. È possibile che, ora che il precedente Roe vs Wade è stato annullato, alcuni Stati approvino rapidamente leggi che vietano i tipi di contraccettivi che agiscono dopo il concepimento.
È così che la sentenza Dobbs riporta indietro il paese di 50 anni, rappresentando una grande sconfitta per le donne americane e di tutto il mondo.
L’aiuto delle grandi aziende tech
Dopo l’emanazione della sentenza diverse grandi aziende e società hanno dichiarato di volersi impegnare per aiutare le proprie dipendenti ad accedere all’interruzione di gravidanza in quegli stati in cui è vietata. Infatti milioni di persone potrebbero essere costrette a viaggiare attraverso i confini statali. E per moltissime persone questo si tradurrebbe in costi difficilmente sostenibili. Per questo motivo tante aziende hanno deciso di concedere alle proprie dipendenti una copertura per le spese di viaggio da affrontare. Alcune di queste aziende sono: Netflix, Microsoft, Meta, Apple, Disney, Uber, Levi’s, Gucci, Nike.
Questione di privacy
Per poter dimostrare la necessità di usufruire di queste coperture sanitarie, molto probabilmente le lavoratrici dovranno condividere con le stesse aziende informazioni molto personali e sensibili, come ad esempio i risultati di test di gravidanza o analisi mediche. Il pericolo è da un lato rendere le lavoratrici ancora più dipendenti dai propri datori di lavoro, dall’altro quello di creare discriminazioni tra lavoratrici freelance o che svolgono attività di consulenza, e che quindi non beneficerebbero di tali coperture.
Altri problemi nascono nel momento in cui tutte queste informazioni estremamente sensibili condivise con il datore di lavoro, potrebbero poi essere oggetto di ricerca da parte delle forze dell’ordine, e utilizzate come prove in futuri procedimenti giudiziari ai danni di chi ha scelto o ha intenzione di abortire.
In secondo luogo, chiunque su internet svolga ricerche anche solo per reperire informazioni sull’aborto, oppure su prodotti e servizi correlati all’interruzione di gravidanza, nei paesi dove questa pratica è diventata o diventerà illegale, sarà a rischio di sorveglianza online. Per esempio, potrebbe essere oggetto di sorveglianza la cronologia della navigazione su Internet (dove abortire e come), le ricerche di strutture idonee e perfino la richiesta di farmaci (la “pillola del giorno dopo”).
Negli ultimi giorni molte donne americane hanno cancellato le applicazioni per il monitoraggio delle mestruazioni dai loro cellulari, nel timore che i dati raccolti dalle applicazioni possano essere usati contro di loro in future cause penali negli Stati in cui l’aborto è diventato illegale. Queste preoccupazioni non sono infondate. Come altre applicazioni, i tracker ciclistici raccolgono, conservano e talvolta condividono alcuni dati dei loro utenti. In uno Stato in cui l’aborto è un reato, i pubblici ministeri potrebbero richiedere le informazioni raccolte da queste app per costruire un caso contro qualcuno.
Il diritto all’aborto in Italia
Anche l’Italia assiste con sconcerto alla decisione americana. Qui, infatti, benché il diritto all’aborto sia tutelato dalla legge 194, non sono poche le problematiche di applicazione ad essa collegate.
Dall’indagine ‘Mai Dati!’, condotta su oltre 180 strutture da Chiara Lalli, docente di Storia della Medicina, e Sonia Montegiove, informatica e giornalista, presentata in occasione dei 44 anni dall’entrata in vigore della legge 194, emerge che sono 31 (24 ospedali e 7 consultori) le strutture sanitarie in Italia con il 100% di obiettori di coscienza includendo ginecologi, anestesisti, infermieri o OSS. Quasi 50 quelli con una percentuale superiore al 90% e oltre 80 quelli con un tasso di obiezione superiore all’80%. Certamente l’obiezione di coscienza è prevista dalla legge 194 ma la stessa legge, vieta «l’obiezione di struttura». Prevede cioè che il numero di medici obiettori di un ospedale non deve impedire che vi si pratichino interventi di IGV.
Un quadro davvero desolante, soprattutto se si pensa che la legge che dovrebbe tutelare il diritto di una donna di decidere per il proprio corpo, per il proprio futuro e per il proprio benessere psico-fisico è male applicata oppure del tutto ignorata. Con la complicità di chi sa ma non fa nulla per renderla attuale. Se non poi indignarsi quando il movimento pro-life l’avrà finalmente cancellata.
Una decisione folle
La sola possibilità di un ripensamento in merito al diritto all’aborto è di per sé un fatto che segna la storia dei diritti umani. E il fatto che sia successo proprio in Usa, un paese che si professa progressista e che ha sinora fatto da apripista per orientamenti culturali e valoriali in Occidente e nel mondo intero, ci deve mettere in allerta e far riflettere su un diritto che deve appartenere a tutte noi al di qua e al di là dell’Oceano.
Per questo, la battuta d’arresto in termini di diritti umani fondamentali che è stata il ribaltamento della sentenza Roe v. Wade, non deve rappresentare la fine di una battaglia, ma l’inizio di una guerra che istituzioni democratiche, attivisti di strada, organizzazioni e tutti i sostenitori continueranno a combattere con ancora più forza per garantire l’accesso ad aborti sicuri e alla contraccezione per milioni di donne.
In una società, quale quella attuale, in cui il divario retributivo tra uomini e donne continua a rappresentare una delle ingiustizie sociali più diffuse a livello globale e la discriminazione di genere è un problema centrale per le politiche di sviluppo sociale a livello mondiale, si dovrebbe pensare ai passi da compiere per andare avanti nella conquista di diritti delle donne. E non a come spazzare via anni di progresso con questa folle decisione.
#mybodymychoice
Fonte: Agendadigitale.eu