La privacy ai tempi del Coronavirus: utilizzo del modello coreano anche in Italia?
Molti economisti, matematici e informatici negli ultimi giorni hanno affermato all’unisono che la chiusura totale in Italia è utile ma non basta: servono anche tracciamenti mirati e l’applicazione del modello coreano.
Il blocco prolungato dell’Italia era necessario vista la situazione dilagante di emergenza, ma non è detto che da solo fermi in maniera definitiva il contagio o l’epidemia. È quello che sostengono molti studiosi come Sabatini, Carnevale Maffè e Fuggetta, i quali, con una serie di studi e analisi su casi italiani e internazionali, fanno emergere che il modello della Corea del Sud sarebbe stato quello ottimale per arginare i contagi.
Mentre l’Italia per fermare la diffusione si è affidata alla chiusura di attività commerciali e alla limitazione degli spostamenti, la Corea del Sud e Singapore si sono affidati alla tecnologia. I due Paesi hanno contenuto l’avanzata del virus grazie anche alla localizzazione dei contagiati per poter evitare quanto più possibile i contatti.
La Corea del Sud, infatti, emerge come un modello a sé nel contrasto all’epidemia di coronavirus, un modello fondato su una combinazione di trasparenza, utilizzo delle nuove tecnologie e test a tappeto per evitare il contagio. Attraverso la collaborazione degli enti statali, dei laboratori privati e delle aziende produttrici è riuscita in poco tempo a mettere in piedi un sistema in grado di fronteggiare l’epidemia nonostante i cluster di contagi che si verificano nel Paese.
Circa ventimila persone al giorno vengono testate e il controllo a ritmo continuo è l’arma che può contenere il contagio e probabilmente anche salvare vite umane: secondo le stime dell’Oms il tasso di mortalità è dello 0,7% contro il 3,4% a livello globale.
La gestione dell’epidemia, però, passa anche attraverso l’uso di Big Data che aiutano gli ospedali a gestire al meglio le emergenze: chi è risultato positivo al test viene messo in auto-quarantena e monitorato attraverso le app fino a quando non si rende disponibile un posto letto in ospedale.
Proprio quando i dati sui nuovi contagi subivano un’impennata, infatti, un’App chiamata “Corona 100m”, ha avuto un boom di download sugli smartphone dei sud-coreani. Il digitale sta svolgendo quindi in Corea del Sud un ruolo fondamentale in questa differenza.
I motivi del successo sono infatti sostanzialmente due: l’individuazione tempestiva dei soggetti positivi, tramite test a tappeto che forniscono l’esito in 10 minuti circa, e la precisa ricostruzione dei loro spostamenti. Entrambi gli obiettivi sono stati raggiunti utilizzando delle apposite applicazioni per smartphone e rinunciando (parzialmente) alla propria privacy.
È stata prevista normativamente la possibilità per il Governo di accedere a filmati CCTV, dati di tracciamento GPS da telefoni e automobili, transazioni con carta di credito, informazioni sull’immigrazione e altri dettagli personali di persone che potrebbero aver contratto, ad esempio, un virus. Le autorità possono inoltre rendere pubbliche alcune di queste informazioni, in modo da permettere un maggiore controllo da parte dei cittadini.
Ma come funzionano questi programmi?
Bae Won-Seok, uno degli sviluppatori di Corona 100m, ha spiegato alla CNN che la sua App consente alle persone di vedere la data in cui un paziente coronavirus è risultato positivo ai test, insieme alla nazionalità, al sesso, all’età e ai luoghi visitati dal paziente. L’utente può anche vedere, tramite un alert che riceve in tempo reale, se nelle sue vicinanze, in un raggio di 100 metri appunto, sono presenti persone affette da coronavirus. Il fatto di conoscere con esattezza i luoghi visitati dal soggetto infetto, permette di isolare con una certa precisione le persone con cui è venuto a contatto individuando facilmente tutti i soggetti positivi.
Ma perché l’Italia non adotta le stesse misure della Corea del Sud?
Ma se possiamo evitare tutti questi effetti negativi, cosa stiamo aspettando? Perché non scarichiamo tutti subito una di queste app?
In Italia ciò, per ora, non è possibile perché il database da cui potrebbero attingere le app è riservato e non pubblico come in Corea. Se ciò sia un vantaggio o meno è difficile dirlo.
Certo è che, anche per chi crede nel dogma della riservatezza, non può non vacillare guardando i piatti della bilancia: da un lato abbiamo la privacy e dall’altro il coronavirus.
Cediamo la privacy per sconfiggere il virus e limitare per quanto possibile la crisi economica oppure cerchiamo di battere la minaccia a suon di quarantene e divieti?
Probabilmente fino a qualche settimana fa non avremmo esitato a ribadire l’importanza di non cedere ma oggi è difficile a dirsi.
Forse, come spesso accade, la soluzione potrebbe essere una via di mezzo: rendere accessibili i dati a taluni soggetti accuratamente selezionati, individuando specifiche regole di ingaggio (magari contenute in accordi di nomina a responsabile esterno del trattamento).
In quest’ottica sarebbe possibile omettere alcuni dati, permettendo comunque alla collettività di raggiungere il medesimo fine. A nessuno del resto interessa sapere il nome, il peso, l’altezza di una persona infetta. Interessa invece sapere se un soggetto infetto è stato nella zona “x” di una qualsiasi città o paese, così da permettere ai cittadini di evitarla nonché alle autorità di agire individuando potenziali altri infetti e, in un secondo momento, sanificando il tutto.
Questa potrebbe essere una soluzione compatibile con il principio di minimizzazione di cui al GDPR, ma non solo. Nell’eventualità in cui l’emergenza dovesse perdurare, permetterebbe alle persone di tornare a vivere una vita normale o quasi, di andare per negozi, di camminare vicini e di fare tutte quelle cose che fino a poco fa erano normali e che ora non sono concesse.
Insomma, anche nella peggiore delle ipotesi (che alcuni pessimisti già avanzano), se questo fosse il nuovo status quo, una simile app, utilizzata in modo corretto, permetterebbe di gestire la vita quotidiana evitando misure drastiche come quelle che il nostro Governo si è trovato costretto ad adottare.
In conclusione, dall’esempio coreano possiamo imparare tanto, ma è necessario adattare il modello a quelli che sono i principi del nostro ordinamento, trovando un corretto bilanciamento tra rispetto della privacy e salvaguardia della salute di tutti.
Fonte: La Stampa/Agenda Digitale/BD Business Defence