Promuovere la Parità di Genere nel mondo del lavoro: il caso di Elisabetta Franchi e le sfide italiane
Nel maggio 2022, la stilista italiana Elisabetta Franchi è finita al centro di una bufera mediatica a seguito di alcune dichiarazioni controverse fatte durante un’intervista per il convegno "Donne e Moda". Durante l'intervista, Franchi ha affermato di preferire assumere donne over 40 perché, secondo lei, queste ultime hanno già completato il loro percorso di maternità e sono quindi più disponibili e affidabili per il lavoro. Queste parole hanno suscitato immediate reazioni negative, accusate di essere discriminatorie e stereotipate.
Franchi ha cercato di giustificare la sua posizione spiegando che, da imprenditrice, deve tenere conto di aspetti pratici legati alla continuità lavorativa. Tuttavia, molti hanno interpretato queste dichiarazioni come un pregiudizio contro le donne più giovani che potrebbero voler avere figli, una visione che rafforza vecchi stereotipi di genere.
A seguito delle frasi discriminatorie, un giudice ha condannato la Betty Blue, la società della stilista, a pagare una multa di 5mila euro a titolo di risarcimento nei confronti dell’Associazione Nazionale Lotta alle Discriminazioni. Inoltre, l'azienda dovrà organizzare corsi di formazione annuali sulla parità di genere, ai quali la stessa Franchi dovrà partecipare.
Questa controversia ha riacceso il dibattito sulle difficoltà che le donne affrontano nel mondo del lavoro, specialmente in contesti in cui carriera e famiglia vengono percepiti come due sfere incompatibili.
La situazione italiana
Lo scandalo di Elisabetta Franchi è più che giustificato, ma non dobbiamo dimenticare che in Italia, come in molti altri Paesi, esistono numerosi imprenditori e imprenditrici che condividono il suo modo di pensare. Franchi ha semplicemente messo in luce una prassi comune, che vede le donne penalizzate nelle assunzioni e nella carriera, trovandosi spesso in posizioni meno retribuite rispetto ai colleghi uomini e impiegate in settori precari e poco strategici. Il tasso di occupazione femminile nel nostro Paese è il più basso dell'Unione Europea, attestandosi al 55%, a fronte del 69,3% della media dell'UE nel quarto trimestre del 2022. Questo divario è evidenziato anche a livello nazionale, dove il numero di donne occupate è di circa 9,5 milioni, in netto svantaggio rispetto ai 13 milioni di uomini occupati. Questo dovuto soprattutto a causa delle insufficienti misure di supporto da parte dello Stato, come servizi per l’infanzia e leggi specifiche per favorire l'occupazione femminile e la conciliazione lavoro-maternità.
Alcuni dati
Secondo i dati più recenti dell'Eurostat, persiste un significativo divario retributivo di genere nell'occupazione femminile. Nonostante il gap medio nella retribuzione oraria lorda tra uomini e donne è del 5%, quindi al di sotto della media europea del 13%, il divario complessivo nel salario annuale medio, che rappresenta la differenza tra i compensi medi per uomini e donne, è del 43%, superiore alla media europea del 36,2%. Le donne continuano a percepire salari inferiori rispetto ai loro colleghi, con retribuzioni medie annuali di circa 18.305 euro rispetto ai 26.227 euro degli uomini.
In realtà il problema che si presenta poi come un circolo vizioso, è a monte: in quel divario salariale tra uomini e donne che emerge già agli inizi della carriera. Il Rapporto su laureate e laureati di Almalaurea ha rilevato che, nonostante i curricula delle donne siano generalmente più brillanti di quelli dei loro colleghi, le laureate, a cinque anni dal conseguimento del titolo, presentano un tasso di occupazione inferiore a quello dei laureati. Uno svantaggio che si rileva anche in termini retributivi: a cinque anni dalla laurea, gli uomini percepiscono, in media, circa il 20% in più. Inoltre, le donne svolgono in misura minore un lavoro autonomo o alle dipendenze con un contratto a tempo indeterminato, mentre lavorano in misura relativamente maggiore con contratti non standard, in particolare alle dipendenze a tempo determinato.
Infine, dal punto di vista delle caratteristiche del lavoro svolto, la bassa partecipazione delle donne al mercato del lavoro è determinata da diversi fattori, come l’occupazione ridotta, in larga parte precaria, in settori a bassa remuneratività o poco strategici e una netta prevalenza del part time, che riguarda poco meno del 49% delle donne occupate (contro il 26,2% degli uomini). Da registrare, infine, criticità sul fronte dei servizi che potrebbero aiutare le donne a conciliare i tempi di vita con quelli del lavoro, come l’assistenza all’infanzia: l’offerta dei nidi risulta in ripresa dopo la pandemia (+1.780 posti), ma le richieste di iscrizione sono in gran parte insoddisfatte, soprattutto nel Mezzogiorno. Con una penalizzazione maggiore per le famiglie più povere, sia per i costi delle rette, sia per la carenza di nidi in diverse aree del Paese.
La difficile scelta tra lavoro e maternità
Aumenta il numero delle dimissioni volontarie, con 44.699 convalide registrate. Un'analisi più dettagliata delle modalità rivela che, rispetto all'anno precedente, le dimissioni volontarie sono aumentate soprattutto per le donne (+22,3% rispetto al +14,4% degli uomini). Inoltre, entrambi i generi hanno registrato una significativa diminuzione delle risoluzioni consensuali rispetto al 2022 (-44,8% contro -31,9%). Le dimissioni per giusta causa sono diminuite solo per le donne (-34%), mentre hanno registrato un lieve aumento (+4,9%) per gli uomini.
La decisione di lasciare il lavoro è influenzata principalmente dalla necessità di conciliare gli impegni familiari per oltre la metà delle donne (52%), mentre il 19% lo fa per motivi economici.
Le motivazioni dietro le dimissioni mostrano differenze significative in base al genere. Le donne, come evidenziato in precedenza, citano principalmente la difficoltà di conciliare il lavoro con la cura dei figli: il 41,7% attribuisce questa difficoltà alla mancanza di servizi di assistenza, mentre il 21,9% la collega a problemi organizzativi sul lavoro. Complessivamente, le difficoltà nella conciliazione tra lavoro e cura dei figli rappresentano il 63,6% di tutte le motivazioni di dimissioni tra le lavoratrici madri. Per gli uomini, invece, la motivazione predominante è di natura professionale: il 78,9% ha dichiarato che hanno lasciato il lavoro per passare ad un'altra azienda, mentre solo il 7,1% ha citato esigenze di cura dei figli.
È importante notare che le donne che lasciano il lavoro entro il primo anno di vita del bambino possono accedere alla Naspi. Tuttavia, questa misura può avere un effetto perverso nel lungo periodo, poiché una volta che una donna si dimette e lascia il mercato del lavoro, può avere difficoltà a rientrarvi in seguito. Questo evidenzia la necessità di politiche che sostengano le donne nel mantenere una presenza continua sul mercato del lavoro, senza dover scegliere tra la maternità e la carriera.
Risposta istituzionale e ruolo delle politiche pubbliche
Le istituzioni devono affrontare queste sfide con politiche mirate che sostengano la conciliazione tra vita e lavoro per le donne, implementando politiche di parità salariale. “Non basta aumentare i posti negli asili nido, anche se si tratta di un intervento sicuramente utile, se non si interviene sul reddito femminile che continua a essere mediamente più basso di quello degli uomini. Ma anche sul fatto che la presenza femminile è più alta nei settori a più basso reddito e che le donne hanno più contratti precari rispetto agli uomini» dichiara Valentina Cardinali responsabile struttura mercato del lavoro Inapp. Inoltre, è cruciale intervenire direttamente sui luoghi di lavoro per combattere la discriminazione di genere e promuovere una cultura aziendale inclusiva che valorizzi e supporti il talento femminile.
BD Business Defence verso la Certificazione per la Parità di Genere
Un elemento cruciale per promuovere la parità di genere nel mondo del lavoro è, infatti, la Certificazione per la Parità di Genere. Questa certificazione, rilasciata da enti indipendenti, attesta che un'azienda rispetta standard specifici di equità tra uomini e donne in termini di retribuzione, opportunità di carriera, condizioni di lavoro e politiche aziendali. La certificazione non solo garantisce che le aziende rispettino i diritti delle donne, ma funge anche da potente strumento di trasparenza e accountability.
BD Business Defence ha intrapreso il percorso per ottenere la Certificazione della Parità di Genere, convinti che possa favorire un ambiente di lavoro più rispettoso e produttivo. Questo rappresenta non solo un passo verso una cultura aziendale più inclusiva, ma anche un'opportunità per mettere in luce l’importanza di migliorare la qualità del lavoro femminile, tutelare la genitorialità e promuovere la trasparenza nei processi lavorativi.